Il dialoghista è l’autore cui è affidata la trasposizione, l’elaborazione e l’adattamento in sincronismo ritmico e labiale dei dialoghi originali, al fine di rendere nella lingua di destinazione lo spirito dell’opera. L’adattamento è quindi un processo di rielaborazione del testo volto alla comprensione da parte dello spettatore.
Il problema, che può apparire prettamente commerciale, implica in realtà un’operazione culturale: il film, infatti, è un sistema semiotico complesso, costituito da un codice visivo, uno sonoro e uno verbale. Proprio perché il linguaggio filmico ha significato se si rispetta l’unione della parola con il gesto, e ogni parola assume significato dal contesto generale, a dover essere ogni volta ricostruita non è tanto la comprensibilità del testo, quanto il rapporto dialettico tra parole e immagini.
Il dialoghista quindi traduce e rielabora il copione originale, scomponendo e ricostruendo i percorsi di significazione delle parole e delle immagini fino ad arrivare ad una forma equivalente sul piano dell’espressione e soddisfacente su quello della comunicazione.
Dato che in Italia e in Europa siamo spettatori di un cinema che nasce in un’altra lingua, ma da sempre parla la nostra, diamo per scontato che lo spettatore non abbia problemi a “sentire parlare” in italiano attori inglesi o francesi.

Ma cosa succede quando sono gli elementi visivi a generare incoerenza?
Vi sarà senz’altro capitato di vedere su schermo una macchina della “POLICE” e di rimanere indisturbati nella vostra visione.
Ma vi sarà anche capitato di sentire una televisione che “parla” non doppiata in inglese nel bel mezzo di un film doppiato in italiano e di aver pensato ad un lavoro scadente.
Il lavoro scadente è palese. Ma perché l’elemento VISIVO non turba lo spettatore quanto quello SONORO?
Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione (1945) afferma che il modo umano di percepire, che è interamente percorso dall’immaginazione che anticipa (il non-ancora dato) e ricorda (il già dato) rivela una esigenza di interna coerenza. La tesi della percezione è che le contraddizioni debbano essere rimosse. Dunque l’uomo vive già pre-riflessivamente fin nel suo percepire, una aspettativa di non contraddizione, ovvero di coerenza o consistenza rispetto alla realtà. Lo spettatore quindi non è turbato dalla scritta “POLICE” perché siamo disposti ad accettare delle piccole incoerenze per riuscire a salvare lo sfondo complessivo. Il modo umano di percepire rivela infatti una esigenza di interna coerenza, ovvero siamo in qualche modo predisposti alla rimozione delle contraddizioni. Quindi più l’incoerenza ha un ruolo marginale rispetto all’attenzione dello spettatore verso l’insieme degli aspetti linguistici e visivi, meno lo spettatore sarà turbato. Si può dunque parlare di livelli di incoerenza.
Ad esempio vi sono molti altri segni che ci permettono di identificare che si tratta di una macchina della polizia (sirene, contesto, colori) così da rendere ininfluente che la scritta sia in un’altra lingua.
Vi sono invece casi in cui la contraddizione investe un’area maggiore della percezione, come ad esempio la televisione che “parla” (non doppiata) in inglese.
In conclusione il livello di disturbo dello spettatore non è dipendente dai singoli elementi in sé, ma dall’interrelazione fra di essi in vista dell’unità narrativa.

Tornando al nostro pacchetto di Camel…nessuno si è mai lamentato del fatto che vi sia raffigurato un dromedario.