Super 8 (2011)
Ritorno alla fantascienza anni Ottanta
Clamoroso back in the days per J. J. Abrams e Spielberg, che confezionano un prodotto, a partire dal titolo, che si nutre di atmosfere che non si respiravano da trent’anni. Del resto corre l’anno 1979 e un gruppo di ragazzini si accinge a girare un filmetto in super 8 che racconta i sadici esperimenti del governo sugli umani per mutarli in zombi. Trattasi, quasi superfluo dirlo, della gioventù e degli interessi del non più giovane produttore.
Il periodo storico riporta alla luce la diffidenza verso il governo e l’ansia per il segreto militare; temi che, covati negli anni settanta, sfociarono nella fantascienza di numerose pellicole nel decennio successivo, attraverso il quale Super 8 ci guida, come in una piacevole carrellata. I movimenti di macchina ad allargare il campo e i numerosi dolly ricordano lo Spielberg dei primi superbudget, così come l’irruzione di figure in movimento nelle inquadrature in campo lungo. La fotografia è più che precisa nell’intento di ricreare, sfruttando ogni fonte di luce, i colori della provincia americana nelle tonalità in cui erano impressi a quel tempo. Come nelle tipiche produzioni Amblin Entertainment i ragazzi sono padroni assoluti della situazione e gli adulti, a meno che siano villain, sono pressoché inutili dal punto di vista dello sviluppo diegetico. Ecco perché gli orfani hanno sempre avuto successo, come in questo caso.
La strategia di marketing finalizzata a tenere all’oscuro il pubblico dell’effettiva natura della presenza misteriosa che aleggia nei vari teaser ha funzionato: infatti l’intreccio è calibrato in modo da stimolare in continuazione la suspense, ma senza rovinare nella ripetitività. Lapidaria è stata la critica americana sul finale, che, in effetti, è stranamente affrettato e piuttosto patetico, nel senso etimologico del termine; mi chiedo, allora, quale fosse l’aspettativa per un film palesemente anni ottanta e che tale si è rivelato nell’epilogo. Pellicole di questo tipo sono da valutare all’interno di un contesto di cinema di genere e, quindi, non si può non riconoscere il finale classico, soprattutto se il modello è quello di trent’anni fa: a pochi minuti dalla fine si tende a rimpiangere l’inizio, ma la pietanza è sempre stata consumata per intero. La vera pecca del finale è da cercare più nella faciloneria con cui si dipana la matassa piuttosto che nella questione etico-sentimentale.
In fondo le eco sono multiple, anche se solo suggerite. La mdp che scarta i bambini e va alla ricerca di dettagli sinistri su cui indugiare ricorda certe sequenze di Poltergeist ed è impressionante quanto la vicenda, in sé e in varie caratterizzazioni, riproponga E.T. in continuazione. L’epilogo con il delirio militare è, all’ennesima potenza di effetti speciali, quello grezzo del dimenticato Invaders, ancora di Hooper. I ragazzini non sono forse I Goonies e i bozzoli del finale le vittime di Alien? Si gravita, insomma, in questo tipo di orbita. La sceneggiatura non è niente di straordinario, ma è brillante nel dettaglio e lusinga le fantasie degli adolescenti, di oggi e di coloro che lo erano allora. Anche le musiche sono scelte con cura, da “My Sharona” a “Heart of glass” di Blondie: un capellone sul viale del tramonto si deve arrendere all’esplosione della disco music.
In riferimento a “The case”, il filmino girato dai protagonisti, parlare di metacinema è quasi ridicolo, ma è forse l’unico elemento – oltre a essere un espediente narrativo davvero commovente – indicativo del tempo che passa, e che è passato da allora.
Non un omaggio, un ‘clinic’ della fantascienza anni ottanta. E che coraggio (fingere di) stupirsi del finale.
di Marco Rovaris [Visita la sua tesi »] [Leggi i suoi articoli »]
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