Palermo, entroterra di Enna e Caltanissetta: ecco da dove prende piede quella che sembra essere la rivalsa del cinema italiano. Due siciliani con l’amore per i loro luoghi e una gavetta da sceneggiatori ci rimettono sulla mappa: la narrazione per immagini orchestra quella del dialogo, ridotto ai minimi termini in un’operazione che riporta il cinema alla sua essenza originaria.
Salvo scuote i miscredenti e ricorda che il cinema italiano è ancora vivo, stupisce a Cannes, vince premi e galoppa nelle sale più che onorevolmente, se si considera il numero delle copie.
L’ultimo dato è il più significativo perché si parla di un film ‘colto’, cinematograficamente parlando, cioè che non si concede al gusto della massa e sa di insistere su ritmi che farebbero storcere il naso al pubblico medio delle sale, ma la scommessa dei registi è vinta. Antonio Piazza e Fabio Grassadonia esordiscono al lungometraggio e finalmente hanno la possibilità di plasmare un loro scritto senza intermediari.
Ne esce un’opera dall’insospettabile pulizia tecnica e che si approccia alle vicende di mafia in un modo che è il più lontano possibile dai cliché e che si concentra sull’intimità dei protagonisti, la cui caratterizzazione è emotivamente a distanze siderali da quella dei comprimari; il che fa di Salvo non un classico film di mafia, ma un prodotto dalle sfumature noir che risente di varie influenze, dal western al thriller psicologico, con un pizzico di black comedy che smussa gli eventuali stilemi del gangster movie. Ma non è un semplice pastiche, bensì un competente omaggio al cinema e ai suoi strumenti, intramontabile metafora dello sguardo.
A questo proposito è da segnalare la sequenza nella casa di Rita, dove i due si incontrano per la prima volta. Nella penombra e nel silenzio dell’abitazione si snoda, di camera in camera, una lezione di thriller che risponde alle regole dei maestri della suspense, “Lo spettatore vede quello che il personaggio non vede”, il tutto impreziosito da puntuali cambi di focale, che si sommano al gioco tra buio e luce in una sottile ma potente analogia con la cecità di Rita. Lo scontro fisico tra i due rappresenta l’epitome di questa dicotomia tra sguardo e incapacità di vedere, che si consuma in una colluttazione quasi mistica nella sua drammaticità e nella svolta dello shock emotivo che consente a Rita di ritrovare il barlume della vista.
L’efficacia delle immagini non può certo prescindere dal lavoro di Daniele Ciprì che, nei panni di direttore della fotografia, ritaglia degli spazi di chiaroscuro e di controluce assolutamente funzionali al senso della narrazione, specchio della condizione interiore dei protagonisti.
Il loro tempo trascorso insieme è in realtà inferiore rispetto a quello in cui li vediamo da soli, da qui la storia di due solitudini che non hanno scampo se non nella rottura delle aspettative di chi controlla le loro vite. Ecco cristallizzarsi un rapporto fortemente connotato dagli sguardi e dalle mani, accompagnamento, soprattutto queste ultime, tra una sequenza e l’altra, all’interno di una soluzione narrativa che esplora tutti e cinque i sensi: occhi, contatto fisico, l’ascolto di eventi fuoricampo, fino all’unico pasto consumato in serenità (il cibo è un disagio per tutto il film) nel magazzino abbandonato con i sicari fuori ad aspettare, surreale e geniale nel suo essere fuori dal tempo.
La versatilità nel muovere e nel posizionare la macchina da presa permette l’alternanza naturale tra momenti di azione – l’agguato iniziale – e quelli introspettivi, vicini a un tipo di cinema quasi concettuale. Non è mai casuale lo spazio del campo visivo come non lo è, a mio parere, la scelta di inquadrare di spalle Salvo per buona parte del film – spesso in notevoli piani sequenza – per poi passare a ritrarlo soprattutto di fronte dal momento della sua ‘redenzione’ in poi.
I dialoghi scarni trovano un contraltare importante nella voce e nel rumore off-screen, decisamente il ‘personaggio’ aggiunto che si materializza nella radio che trasmette i disagi delle alte temperature, negli spari e nelle grida di lotta così come nei versi degli animali e nel boato della nave nell’epilogo.
Il valore universale di questa pellicola sta nel suo essere potenzialmente decontestualizzabile dal punto di vista del tempo; idealmente la vicenda si potrebbe svolgere oggi come 50 anni fa, perché il lavoro sulla messa in scena prescinde da tutto ciò che non è la Sicilia con i suoi luoghi e il suo caldo, la storia di mafia, due vite che si intrecciano. Il dettaglio veramente odierno, che penetra più volte e in luoghi diversi del film, compensando quasi l’assenza di parole tra Rita e Salvo, è il pezzo “Arriverà” dei Modà con Emma, che si aggiunge a quei pochi dettaglii pop che convalidano la realtà e l’attualità della pellicola, come i quadretti religiosi kitsch alle pareti, la tuta Adidas del boss e le televendite nella cucina dove vegeta un bravo Luigi Lo Cascio.
La devastante interpretazione dell’esordiente Sara Serraiocco e l’azzeccata sagoma ieratica del palestinese Bakri non erano un dato di fatto prima del prodotto finale, aggravante non da poco per gli standard della maggior parte dei produttori di casa nostra. Il che mette ancora più in evidenza gli sforzi di Massimo Cristaldi e Fabrizio Mosca nel mettere in piedi una ‘cordata’ di undici finanziamenti diversi per il progetto, che alla fine ha pagato in pieno: una bella storia di cinema italiano dalla quale prendere esempio, se questi sono i risultati.