Ripescare dalla memoria le immagini, i volti, lo sgomento, il caos che il 26 dicembre del 2004 invasero gli occhi del mondo sbalordito di fronte ad una inarrestabile azione della natura che si apprestava a destabilizzare gli animi di tante persone variamente dislocate sulle terre affacciate sull'Oceano Indiano, vivifica una tale emozione che ti porta a irrigidire il corpo e trattenere il fiato. La stessa reazione che si ha di fronte ad un'onda che ti si riversa inaspettatamente contro.
La stessa reazione che si prova di fronte alla proiezione di The Impossible, che dell'indelebile tsunami conserva il senso di travolgimento in tutta la prima parte. Il film, diretto dal regista spagnolo Juan Antonio Bayona e sceneggiato da Sergio G. Sanchez, non rivela particolari pretese di stupire e non ricorre a scene maestose o a trovate registiche sbalorditive che catturino l'occhio dello spettatore.
C'è, al contrario, la volontà di rispettare l'evolversi di una vicenda che sa di impossibile. Innanzitutto perché nessuno reputerebbe possibile che la vacanza esotica con la propria famiglia, a godere del caldo e del mare della Thailandia mentre il Natale per antonomasia è innevato, rischi di trasformarsi in un passaggio all'inferno; poi perché altrettanto impossibile riuscirebbe pensare che cinque anime violentemente separate e strattonate da un capriccio inarrestabile della natura riescano a ritrovarsi e a mettere in salvo un progetto costruito con molta dedizione: la famiglia.
E non è per la mancanza di arzigogoli cinematografici che un film debba essere brutto o poco meritevole di plauso. Anche nella linearità, nella semplicità, nella autenticità e nella normalità di una storia vera riposa il bello; anzi proprio queste caratteristiche, forse, ne semplificano la ricezione da parte dello spettatore. Il regista ha raccontato un episodio di vita vissuta, quello della famiglia Alvarez, riuscendo a creare un forte pathos visivo ed emotivo semplicemente attenendosi ai fatti che, già di per sé, bastano a indurire l'addome, a bloccare il respiro e a domandarsi continuamente “ma come è possibile?”.
Non ha inventato alcun modo inedito di costruire scene e montare immagini e ha conservato la coincidenza tra fabula e intreccio, ossia la perfetta corrispondenza tra cronologia dei fatti verificatisi nella realtà e cronologia degli stessi presentati nelle sequenze visivo-narrative.
Ed è proprio questa osservanza della realtà che, a mio parere, consegna alla pellicola un sano potere emozionale amplificato, in vari momenti, dalle inquadrature ristrette sul volto e gli occhi di Lucas, il primogenito audace interpretato da Tom Holland, vero protagonista del film, e dalla scena al ralenti in cui Naomi Watts, nei panni della signora Alvarez, emerge miracolosamente dal turbinoso fondale con il braccio destro teso e il palmo della mano aperto a rappresentare la voglia e la caparbietà di riafferrare la vita.
Dunque se ci si dovesse interrogare sul perché esporsi alla visione di questo film si potrebbe rispondere che la motivazione risiede nello spunto di riflessione che viene offerto: riflessione sulla imprevedibilità dell'esistenza, sull'inutilità di programmare ossessivamente la propria vita, sulla necessità di essere flessibili per essere pronti a fronteggiare ciò che non ci si aspetta e che può accadere inevitabilmente, nella consapevolezza che, come hanno osservato Gilles Deleuze e Felix Guattari, siamo tutti on the line, tutti in bilico tra il certo e l'incerto, tutti su una zona liminale in cui vivere significa mantenersi in equilibrio e mantenersi in equilibrio spesso richiede il confronto con l'impossibile.