Uno dei piaceri che regala l'esposizione al prodotto cinematografico è quello di subire la sensazione di shock che crea destabilizzazione nello spettatore e mette in moto un meccanismo mentale di riflessione e interpretazione dei contenuti, il quale scuote i pensieri ingessati e permette di mettere in discussioni le proprie visioni della realtà grazie al confronto con quella rappresentata sullo schermo, come Walter Benjamin ha insegnato.
È chiaro come una esperienza del genere diventi ancora più stimolante di fronte ad un film dalla trama non semplice, come succede con la lettura di un romanzo di cui non riusciamo a prevedere lo svolgersi dei fatti, però la stessa rischia di essere inibita quando la lunghezza della pellicola, la snervante intersezione visiva delle storie e il continuo cambio di ruolo dei personaggi.
Elementi presenti in Cloud Atlas, lavoro a sei mani dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer, creano nello spettatore l'effetto intorpidimento e ansia da fine.
Certo non si può negare la maestosità del lavoro in cui si possono osservare scene ben costruite, ambienti suggestivi, dialoghi di qualità combinati all'interno di una fotografia che sfrutta la luce come elemento magnificativo.
Ma la scelta del montaggio in stile patchwork, con cesure visive improvvise e rapidi cambi di storia e ambientazioni, rischiano di compromettere la comprensione e delle singole storie e del testo filmico complessivo, inducendo chi guarda a rinunciare a cogliere il valore semantico a causa dei continui e inevitabili recuperi di informazioni diverse a cui si è costretti.
In altri termini, non si fa in tempo a prendere coscienza degli avvenimenti che fanno avanzare una delle sei storie rappresentate che si viene obbligati a rimettere insieme i pezzi di un'altra storia, interrotta diversi minuti prima e ora pronta a continuare. Ne consegue un più spiccato godimento per gli occhi a scapito di una soddisfazione cognitiva, ulteriormente ostacolata dalla complessità e specificità dei temi trattati, colti dal non accessibilissimo giardino della filosofia.
Ci basta, a sostegno di questa osservazione, sottolineare come il fil rouge di tutta la narrazione filmica rimandi al concetto di eterno ritorno di Nietzsche, vale a dire alla ripetitività di un tempo che si manifesta ogni volta nuovo nella forma, perché rinnovati sono gli elementi materiali che lo caratterizzano. A partire dall'uomo con il suo linguaggio in continua evoluzione e con gli oggetti esterni con cui si presenta nella vita, ma che, in realtà, è nella sostanza identico a se stesso, proprio perché i suoi protagonisti continuano ad essere gli uomini che conservano e reiterano la loro umanità fatta di passioni, desideri, paure e ideali sempre uguali come, metaforicamente, testimonia la macchia a forma di cometa impressa sulla pelle dei protagonisti delle sei storie.
La traduzione in immagine dei temi propri della filosofia, quali il condizionamento delle coscienze, la massificazione dei comportamenti, la responsabilità morale delle azioni, l'accettazione del diverso, la sperimentazione del diverso, per rilevarne alcuni, testimoniano dell'impegno mirabile speso dalla regia e accresce il peso culturale del lavoro.
Il contrappeso però è quello di portare nelle sale una pellicola non adatta a tutti e che può indurre molti spettatori a ripetere a denti stretti una domanda: “ma quando finisce?”.