Alcuni mesi fa, intervenendo al Festival Terra di Siena, Carlo Verdone ci confermava la vicina uscita del suo nuovo film, ancora in fase di ripresa: ce lo anticipava come un lavoro importante, una probabile svolta, sorretto da una solida sceneggiatura, scritta a quattro mani con il giovane Muccino, più altri collaboratori. Non condividiamo adesso molto la sua considerazione circa la consistenza della sceneggiatura, ma sicuramente “Il mio miglior nemico” è tra i migliori film italiani dell’ultimo anno trascorso, pur con qualche incongruenza e squilibrio, che coinvolgono anche le prestazioni attoriali, soprattutto confrontando la bravura di Verdone con l’interpretazione abbastanza informe di Muccino, in più scene clone di se stesso.
I dubbi sulla sceneggiatura riguardano la “scrittura in abbondanza” di alcuni episodi: non ci sono vuoti narrativi, è vero, ed è già molto. Perché, se è altrimenti pacifico che Verdone è autore di buone sceneggiature (la collaborazione con Benvenuti e De Bernardi ha sicuramente giovato al suo già forte talento), è un dato di fatto che alcuni recenti film di autori italiani sono stati costruiti seguendo sceneggiature dai passaggi assenti o imbarazzanti. Nel nostro caso la pecca sta proprio nell’inverso: in alcuni episodi (ad esempio l’intero ambientato in Turchia) che risultano inutili nell’economia del testo filmico, seppur divertenti, e che potevano quindi essere soppressi in vantaggio di una maggiore caratterizzazione dei personaggi femminili, sicuramente quelli descritti con meno efficacia o veridicità psicologica.
L’importanza e la piacevolezza dell’ultimo lavoro di Verdone dimorano particolarmente in due precisi elementi: intanto, il film recupera i motivi della ricerca e del viaggio, entrambi molto cari al regista. Ma in una modalità ed una accezione, ci pare, del tutto innovative. Il tema del viaggio era già alla base di “Bianco Rosso e Verdone” (1980), e di “Maledetto il giorno che ti ho incontrato” (1992), per dirne solo due, e quello della ricerca, e del viaggio come (criterio di) ricerca, di un film troppo sottovalutato come “Al lupo al lupo!” (1993). Quest’ultimo, ci consente di parlare del “nuovo corso” introdotto oggi da Verdone: vi si narra la vicenda di due fratelli ed una sorella che, diversi e lontani tra loro, si riuniscono per ritrovare insieme il padre scomparso. Alla ricerca del padre si sostituisce gradualmente la ricerca, ed il ritrovamento, di loro stessi, come individui e come fratelli.
La maggiore differenza con il nuovo lavoro è che quel film iniziava, e si muoveva da subito, come un percorso. “Il mio miglior nemico”, invece, gioca consapevolmente con lo spettatore. Lo coinvolge in un primo tempo tragicomico, nel quale il tema della ricerca è, a una prima lettura assente: Achille (Verdone), direttore di un importante hotel, è il marito di una ricchissima donna, proprietaria del medesimo. Dopo aver scoperto una cameriera rubare un computer ad un cliente, la licenzia. Orfeo (Muccino), figlio della donna, una povera depressa, convinto della sua innocenza, escogita la sua vendetta: scoperta la relazione tra Achille e la cognata, li fotografa, e li sputtana durante la festa del 25° anniversario di matrimonio di Verdone. Ma si è intanto innamorato di sua figlia Cecilia, la quale, scioccata dal padre fedifrago e da un fidanzato ricattatore, scompare. Achille ed Orfeo partono per ritrovarla.
Certo, Verdone ha già gettato lungo il primo tempo i semi che germoglieranno poi nella ricerca ed il viaggio che muovono il secondo tempo: ma con l’abilità di un esperto di prestidigitazione, che cela bene i suoi trucchi. Così: Orfeo, che vive con una madre depressa ed infelice, soffre dell’assenza di un padre che non ha mai conosciuto, nonostante sappia dove viva; Cecilia, figlia di Achille, lamenta l’assenza del proprio padre, confessando tutto in una raccolta di poesie che egli avrebbe dovuto leggere: come tanti padri incapaci di essere tali; Achille stesso, arricchitosi grazie alla moglie, proprietaria dell’albergo che lui dirige, soffre della mancanza di una propria dignità, professionale ed umana, schiacciato dalla figura del cognato, che cerca di castrare facendosi come amante proprio la sua giovane moglie.
Con estrema eleganza il viaggio, reale certo, verso il lago di Como, e poi verso la Svizzera e la Turchia, alla ricerca di una figlia e di una fidanzata, si fa concretamento di qualcos’altro. Muccino, dopo aver lasciata la madre, si decide a conoscere il padre mai veduto, che scopre essere un ricco ingegnere il quale, dopo averlo scovato nel suo giardino, lo denuncia. Sarà Achille a salvarlo, a trattarlo da padre, fingendosi suo padre, prendendolo a schiaffi davanti ai carabinieri come il suo vero padre non aveva mai fatto. Verdone troverà un figlio, un nuovo figlio, scapestrato e ribelle come avrebbe in segreto voluto. In tutto ciò la figlia è un po’ uno specchietto per le allodole, forse perdiamo anche noi l’interesse di ritrovarla, le vicende non ci danno il tempo di amarla abbastanza. Ma che faccia crescere Achille ed Orfeo come un padre ed un figlio nuovi di zecca, questo si che ci interessa e ci da emozione.
Poi il film di Verdone si associa perfettamente alla percepibile vague della attuale cinematografia italiana che, ancora in attesa di un puer che introduca davvero qualcosa di nouvelle, gioca le sue carte migliori sul terreno del dramma mascherato, e narrato, con i toni della commedia. Perché questa è la nostra tradizione, fin dal Neorealismo, che, tra i suoi effetti meno studiati, ma sicuramente importanti, ha avuto anche quello di aver tolto al grande pubblico il gusto per i drammoni strappalacrime alla Matarazzo: ed il Neorealismo Rosa, e poi la grande stagione della Commedia all’italiana, non hanno fatto altro che ribadirlo: l’ironia era la migliore delle armi, anche per suscitare un sentimento di speranza nello spettatore altrimenti disarmato. E così, certo, si ride con l’ultimo Verdone: ma si ride amaro – ma si è mai riso poi gratuitamente con lui? – di quel riso capace, ogni volta, di suscitare commozione, rabbia, o speranza.
Non avrebbe sicuramente guastato un po’ di cattiveria in più, ma la prova è ampiamente superata.

Dopotutto “bisogna perdere tutto per capire che cosa è davvero importante”