Senza Rimini non si potrebbe pensare Fellini, perché la città romagnola, con le sue fratture e la sua magia che sorge e tramonta con le diverse stagioni, ha avuto un peso enorme nel suo immaginario.

Amarcord: ovvero "Io mi ricordo".
Federico Fellini, con la complicità di Tonino Guerra, ci regala un film da sogno. Dove la Romagna è trasfigurata in terra mitica, ed ancora una volta il particolare, il personale, ovvero il vissuto del regista, si trasformano in interesse comune.
Perché è proprio della genialità di Fellini l'essere riuscito a tramutare il privato in interessante.
Il film, che gli valse l'Oscar 1973, è in un certo senso preannunciato da "Roma", dell'anno precedente, forse il film più inevitabile del maestro riminese, e ripercorre l'infanzia, l'adolescenza e la crescita del personaggio protagonista, alter-ego del regista stesso.
Una valanga di sequenze memorabili, che virano dalla comicità (le scene a scuola) alla poesia: il passaggio del Rex, le barchette dondolanti appoggiate ad un mare di teli gonfiati, e la sagoma del transatlantico, falsa di realtà, vera di teatrale finzione: pare di leggere una poesia di Prevert.
Ad un certo punto, uscendo di casa, il nonno si trova perduto in una fitta nebbia. Chiama, gira un poco su se stesso, chiama ancora. Ma niente: rientra a casa deluso ed amareggiato di essersi smarrito laddove ha vissuto una vita intera.
L'impianto narrativo di Amarcord, e di gran parte dell'immensa cinematografia felliniana, si muove in senso contrario: ci fa cittadini di una nebbia di cose e ricordi che non abbiamo personalmente vissuti. Ma che pure, fin dal nostro affacciarsi alla vita, fanno parte di noi e, come il "voglio una donna" dello zio picchiatello (un memorabile Ciccio Ingrassia), oramai del nostro inconscio collettivo.
Un film da vedere e, soprattutto, da rivedere. Con quello spirito, tutto felliniano, della realtà vera che non è fatta dalle cose come sono accadute, ma come vorremmo fossero state.