Il film di Joseph Sargent si compone di quattro episodi, inizialmente realizzati per la serie televisiva Darkroom, ma ritenuti poi inadatti allo show: dunque quattro storie diverse e girate in momenti diversi si trovano riunite in un’unica pellicola, nella cui locandina due occhi diabolici emergono dal buio, con due mani protese che vengono a prenderci.
Ovviamente ci si rende conto che gli episodi sono slegati e, direi, incompatibili tra loro sul piano del ritmo, delle location e delle tematiche, ma la sensazione finale è gradevole e spinge al sorriso, non solo per certi artifici del digitale, ma perché si è consapevoli di aver assistito, in un’unica visione, alle molteplici sfaccettature dell’horror in un formato – quello a episodi – che proprio in quegli anni fu sfruttato con i migliori risultati.
L’episodio di apertura, Terror in Topanga, descrive la paranoia di Cristina Raines, tabagista incallita uscita di casa per acquistare le sigarette nonostante nella cittadina si aggiri un pericoloso assassino da poco evaso, dal quale lei inizia a sentirsi perseguitata subito dopo aver abbandonato le mura domestiche. Diffidente verso chiunque, alla fine è salvata da un ambiguo benzinaio che la trascina fuori dall’auto, perché nel sedile posteriore si nascondeva l’assassino, pronto a ucciderla.
Episodio a tinte scurissime, costruito sull’ansia per ciò che non si vede, scivola via dignitosamente.
Bishop of battle ci porta in una metropoli, alle prese con leggende da videogiochi e maghi dei giochi 'arcade' che oggi non esitono più. Emilio Estevez è J. J., un giovane campione di videogames che vince soldi a ripetizione gareggiando con i coetanei, ma il suo pensiero è rivolto perennemente a "The Bishop of battle", un videogioco al cui tredicesimo livello nessuno è mai arrivato.
La sua ossessione lo porta a litigare con il migliore amico e con i genitori, che lo segregano in casa, dalla quale però scappa, una sera, non resistendo al richiamo della sfida. Penetrato illegalmente nella sala giochi locale, inizia a giocare e riesce, dopo sforzi immani, ad approdare al fatidico ultimo livello. La voce del gioco gli dà il benvenuto nell’impensabile: la piattaforma del videogame si frantuma sotto i suoi occhi e i nemici dei precedenti livelli si materializzano nell’aere; ha inizio una battaglia epica a suon di spari laser tra il ragazzo e interessanti creazioni digitali fluttuanti.
Il nostro però soccombe al nemico in una sala giochi ormai ridotta per metà a una massa di lamiere fumanti; solo il mattino seguente scopriamo, attraverso gli occhi dell’amico che guardano "The Bishop of battle", che J. J. è imprigionato in un livello del gioco, ridotto a una manciata disperata di pixel. Non male davvero.
Forse è l’episodio più riuscito, un crescendo di adrenalina e tensione che esplode nella sparatoria e nel colpo di scena finali, per i quali è stato impiegato gran parte del budget a disposizione, in termini di realizzazione digitale. Estevez si allenò per due settimane al NYPD per imparare a maneggiare e puntare un’arma da fuoco.
Segue The benediction, un episodio che certi critici avrebbero definito minimalista: ambientato in quello che potrebbe essere un qualunque paese limitrofo a El Paso, è costruito sulle sofferte espressioni di un apatico Lance Henriksen, sacerdote che ha perso la fede e decide di mollare l’abito talare e di lasciare la sua comunità. L’occasione per redimersi e tornare sui suoi passi si manifesta sotto forma di un misterioso pick-up nero, che lo perseguita e lo costringe a un estenuante duello stradale. Il veicolo maledetto è guidato da un emissario infernale, come si può intuire dal crocifisso capovolto appeso allo specchietto retrovisore; in una sequenza esso emerge direttamente dal sottosuolo.
Abbastanza interlocutorio è anche il fatto che il pick-up si smaterializzi non appena viene colpito da un secchio lanciato dal protagonista, ormai alla frutta e con la sua Chevelle Malibu caduta letteralmente a pezzi. Ma è inutile cercare spiegazioni nella ratio, in quanto trattasi di autentica parabola nella migliore tradizione evangelica, votata più al plagio delle menti che al rispetto della veridicità.
Si chiude con Night of the rat, dal cui titolo si può già pensare che ci sia in serbo qualcosa di smaccatamente grottesco, che infatti si manifesta nel finale, quando un ratto gigantesco troneggia di fronte a una coppia incredula e squittisce in modo così potente da rompere il muro del suono. Esso appartiene alle leggende germaniche e si è manifestato nella casa di una tranquilla famiglia dopo che questa ha causato la morte di un topo con una trappola in soffitta.
I rumori che spaventavano la moglie non si acquietano, anzi, si fanno minacciosi e, quando il gatto viene 'fatto sparire', è chiaro che qualcosa non va; nei mobili vengono trovate tracce di morsi di dimensioni spaventose che convincono un esperto che si tratti di un demone-animale di mitologica memoria centroeuropea. Nel già citato confronto finale i due pagano dazio all’enorme ratto offrendo la salma del topo ucciso in soffitta, liberandosi così dalla maledizione. Epos di provincia.